Teatro

MADRID, La pietra del paragone

MADRID, La pietra del paragone

Madrid, teatro Real, “La pietra del paragone” di Gioachino Rossini TROVAR SAPRO' BEN IO QUALCH'ALTRO GIORNALISTA CHE ABBIA A CUORE IL SUO GUADAGNO SI', MA PIU' L'ONORE Il teatro Real festeggia dieci anni di attività dalla riapertura con una interessante “temporada” (www.teatro-real.com) e una collaborazione con altri enti lirici spagnoli, che denota quanto sia vivo l'interesse in Spagna, non solo della popolazione ma anche degli enti pubblici, per la lirica. Un progetto che mi è parso interessante è quello denominato “òpera XXI, la òpera de todos para todos”, che riunisce 28 teatri e festival al fine di promuovere l'attività operistica e creare nuovo pubblico (www.operaxxi.com). E Madrid è diventata una città davvero splendida, organizzata, accogliente, tollerante, con ampie zone pedonali e servizi pubblici come non se ne vedono per funzionalità, efficienza, pulizia, oltre a un'offerta culturale di prim'ordine, tra teatri, musei, esposizioni temporanee ed attività collaterali. Questa Pietra del paragone è l'efficace e piacevole allestimento del Rossini Opera Festival di Pesaro (2002), con regia, scene e costumi di Pier Luigi Pizzi e le luci perfette di Sergio Rossi. L'ambientazione è in una villa negli anni Settanta, moderna architettura con pareti bianche, rosse e vetrate, quadri di Alberto Burri alle pareti, un parco con piscina. L'opera ne guadagna, perchè è straordinariamente attuale: Luigi Romanelli era dotato di solida cultura e di intelligenza pronta ed il risultato di ciò è un libretto autorevolissimo, seppure un poco prolisso nel secondo atto (risolto con efficaci tagli che intensificano lo svolgimento dei fatti). A Madrid sono rimasto stupefatto nell'ascoltare la lunga aria di Macrobio, quando il giornalista tranquillamente, come fosse cosa normale, ammette di scrivere a pagamento e su richiesta e racconta di ballerine, mamme di cantanti e “virtuosi d'ogni razza” (“bassi, musici e tenori, pappagalli e protettori”) che si raccomandano per articoli e recensioni: una vallettopoli a tutti gli effetti, l'Italia di ieri e di oggi, sempre la stessa. Gli spagnoli si divertono, io, unico italiano in platea, mi trovo a pensare. Infatti la regia evidenza come la Pietra sia attuale (basta la battuta di Pacuvio che dà il titolo alla recensione), in un giardino pieno di veline e tronisti che sembrano usciti da uno dei tanti programmi inutili della televisione. Oppure dalla Procura di Potenza.. Come in un film, i personaggi continuano ad essere in scena anche quando non cantano, si muovono per la casa, fanno azioni quotidiane, si vestono, parlano e giocano. Tante le citazioni cinematografiche (i telefoni bianchi, il fascino delle dive, le smargiassate dei vitelloni, il tennis nel giardino dei Finzi Contini) nell'allestimento a scena fissa, una scena ariosa e fresca di giardino e d'estate, dove un gruppo di amici pare divertirsi senza pensieri: però qualcuno è a casa di Asdrubale per affetto (Clarice e Giocondo), qualcun altro c'è per opportunismo ed interesse (Aspasia, Fulvia, Macrobio e Pacuvio). Qui il tempo passa tra un cambio di abito, un po' di sport (curiosa la scena in cui Macrobio e Giocondo giocano a tennis utilizzando le due “braccia” laterali del palco che, ai lati del golfo mistico, arrivano in platea), mangiare e bere, conversare al telefono (perfetta la scena sesta del primo atto, il colloquio tra Clarice e Asdrubale che Pizzi immagina al telefono), un bagno in piscina (di Fulvia in bikini, mentre Pacuvio canta “Ombretta sdegnosa del Missipipì”, prima di cadere, accidentalmente, nell'acqua). Il cast è buono e ben amalgamato, tutti (tranne Bordogna e la Todorovitch) già nell'allestimento pesarese e nella registrazione della Fonè diretta da Carlo Rizzi. Marco Vinco è a suo agio nel ruolo ma risulta un poco acerbo, non nella voce, che anzi è piena e matura, quanto nell'aspetto fisico: un Asdrubale quasi teen-ager che si dedica agli esercizi fisici ed al culto del corpo; il troppo insistere su questo aspetto rende poco credibile il suo percorso, benchè la forma fisica sia invidiabile (e varie volte rimane in mutande). Però, seppure aitante, non ha lo charme di un conte. Bene per Vinco sul piano vocale, registri a fuoco, fraseggio curato, emissione salda e sicura. Marie-Ange Todorovitch è una Clarice inattuale e fuori tempo, una diva del cinema che indossa lunghi e vaporosi abiti (diversi da quelli della Carmen Oprisanu al Rof di Pesaro), contegno distaccato e leggermente snob, innamorata del Conte e disposta a tutto pur di averlo (“E' pena tal, ch'io bramo che alfin m'uccida amor”), fino a travestirsi da uomo: una bella trovata registica è quando Clarice, in abiti maschili, creduta da tutti suo fratello gemello Lucindo, bacia in bocca il Conte stupefatto. La voce della Todorovitch è potente ma carente nel registro grave, a tratti velata, un po' chiara per il timbro contrantile della partitura. Patrizia Biccirè e Laura Brioli sono convincenti nei ruoli di Fulvia e Aspasia: la prima sembra uscita da un film di Almodovar nelle movenze e negli abiti, la seconda è più di classe, ma lontana dall'irraggiungibile Clarice. Vocalmente entrambe si destreggiano bene con mezzi adeguati; attorialmente sono così naturalmente divertenti da portare spesso il pubblico all'applauso. Raùl Giménez è un Giocondo di gran classe, elegante nei modi e nell'animo. La voce è usata in modo ottimale in ogni pagina e culmina nella bella aria “Quell'alme pupille”, dove perfetti sono i filati e l'intonazione è piena di sentimento. Il tenore dimostra di essere anche ironico: quando accidentalmente colpisce la barcaccia con la racchetta, ci scherza sopra ed il pubblico si diverte. Convincente Paolo Bordogna nel ruolo di Pacuvio, di cui accentua i caratteri buffi senza scadere nel ridicolo e nel volgare, anche quando si tuffa in piscina. Il suo personaggio, seppure meno attuale dell'incredibile Macrobio, è ben delineato ed i momenti in cui è in scena risultano particolarmente briosi; cosa importante, la voce è adeguata al ruolo. Pietro Spagnoli è un Macrobio maturo e intrigante, gentile ed affabile per suo tornaconto, invero solo un opportunista. Bene descrive il personaggio il momento in cui mangia una banana e, in modo sprezzante, getta via la buccia nel giardino di Asdrubale. Spagnoli non è nuovo a ruoli “atletici” e anche qui fisicamente non si risparmia: corre e salta come un grillo. La voce è tanta, brillante e bene appoggiata, con un'ottima tenuta, senza perdere un fiato, arrivando senza sforzo fino al sol. Ben padroneggia nell'imitare efficacemente Vittorio Gassman nell'inciso “questa musica è divina” durante l'aria del secondo atto, dopo che ha spezzato la bacchetta del direttore d'orchestra (davvero!) nel cantare “largo, largo.. ecco il Maestro”. Poi passa a suonare dal vivo la chitarra, mentre canta “Su queste piante incisi i nostri nomi stanno: anch'esse apprenderanno d'amore a palpitar”, con Clarice e Giocondo che ballano il valzer intorno alla piscina. Con loro il Fabrizio di Tomeu Bibiloni e il Coro del teatro diretto da Jordi Casas Bayer. Non ha convinto la direzione di Alberto Zedda, a cui è mancata energia e decisione e, soprattutto, ritmo, tanto che molti passaggi sono stati troppo rallentati, trasformati in “larghi” e “larghissimi” dove non ce n'era bisogno (meglio invece la sinfonia ed il momento del temporale). Il tutto senza evidenziare le belle trasparenze di cui la partitura è piena, al punto che Stendhal riteneva “La pietra del paragone” il capolavoro del genere buffo. Visto a Madrid, teatro Real, il 30 marzo 2007 Francesco Rapaccioni